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Dilemma bail-in

15/07/2016

Il sistema bancario italiano è gravato da una quantità di crediti in sofferenza che non ha uguali nel resto d’Europa.

Dopo il crollo fisiologico seguito al referendum che ha decretato l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, Piazza Affari sta faticosamente cercando il recupero. Ma il voto sulla Brexit ha purtroppo esacerbato gli animi degli investitori e sta pesando in particolare su un settore che negli ultimi mesi è stato spesso sotto i riflettori e viene addirittura considerato il ventre molle dell’Eurozona. Stiamo ovviamente parlando del comparto bancario, che si ritaglia una fetta decisiva della capitalizzazione del Ftse-Mib. Il trend di discesa dei titoli bancari, iniziato a gennaio, ha avuto un’accelerata decisiva nelle ultime settimane, quando sono stati letteralmente travolti dalle vendite.

L’epicentro della crisi dei bancari a Piazza Affari, come molti sanno, è il Monte dei Paschi di Siena, ripetutamente sospeso per eccesso di ribasso, ma in realtà anche le altre big del settore hanno lasciato sul terreno in poche settimane, mediamente, il 15% della loro capitalizzazione. Come anticipato, a rendere la situazione più complicata c’è una realtà assodata: l’Italia è un’economia banconcentrica. Negli ultimi cinquanta anni, perlomeno, le aziende, piuttosto che raccogliere sul mercato i capitali necessari per la loro crescita attraverso la quotazione o l’emissione di bond, hanno preferito rivolgersi al sistema bancario.

Questo elemento, associato alla grave crisi economico-finanziaria attraversata dal paese negli ultimi dieci anni, ha creato un circolo vizioso oramai insostenibile. Il sistema bancario italiano è infatti gravato da una quantità di crediti in sofferenza che non ha uguali nel resto d’Europa e non casualmente si attesta a circa il doppio della media comunitaria. Secondo l’Abi, il sistema bancario italiano è in presenza di circa 350 miliardi di crediti deteriorati: 200 miliardi (lordi) di sofferenze (la cui riscossione non è certa) e 150 di incagli (quando la banca richiede il rientro dell’esposizione entro un termine negoziato con il debitore), mostrando uno scenario da far tremare i polsi.

Non per niente nelle ultime settimane il premier Matteo Renzi sta tentando di raggiungere con gli altri leader europei un accordo per tentare di puntellare il sistema bancario italiano attraverso l’intervento pubblico, in deroga alla disciplina comunitaria, e al contempo sta provando a modificare, alleggerendoli, i termini del bail out. Ma di cosa si tratta? Il primo gennaio scorso è entrata in vigore la nuova normativa europea sui salvataggi dei grandi gruppi bancari. Una direttiva disegnata per evitare che le crisi bancarie future possano nuovamente pesare sulla comunità, come avvenuto nel 2008 quando sono state ricapitalizzate le vacillanti banche del continente con ben 453,3 miliardi di euro, mentre l’Italia ha iniettato solo 8 miliardi nel sistema.

Se nel passato, infatti, la crisi di una banca era stata risolta per lo più attraverso l’aiuto diretto dello stato, il caso Cipro ha spinto i regulator europei a elaborare il primo aiuto classificabile sotto l’etichetta del bail-in. In pratica, in cambio di un finanziamento da 10 miliardi di euro erogati da Ue, Fmi e Bce, la piccola isola si è impegnata a recuperare 5,8 miliardi di euro per affrontare la crisi. Per trovare i soldi, il governo di Cipro è ricorso a misure draconiane come il prelievo sui depositi bancari (come avevano fatto l’Italia nel 1992 e la Norvegia nel 1936) rastrellando in una notte, in pratica, il 60% sui depositi superiori ai 100 mila euro. In linea generale, il bail-in indica un salvataggio con risorse interne alla banca stessa.

Semplificando, toccherà in primis agli azionisti metter mano ai portafogli per ripianare il rosso dell’istituto, poi sarà la volta dei sottoscrittori di obbligazioni ed eventualmente in ultima istanza ai clienti, in altre parole a chi ha un conto corrente, anche se unicamente quelli con maggiori disponibilità, tenendo comunque presente che le normative nazionali continuano a offrire una garanzia pubblica sui conti correnti fino a 100 mila euro. La logica del bail-in è in sintesi evitare non solo che la collettività si accolli il peso dei crolli bancari ma anche, se non soprattutto, che le banche assumano troppi rischi con i risparmi dei depositanti, confidando nell’intervento pubblico, come già avvenuto in passato, quando le cose iniziavano ad andare male e i correntisti cominciavano a protestare.

Molto semplicemente il bail-in abbraccia appieno la filosofia del caveat emptor (stia in guardia il compratore!): i sottoscrittori di azioni o obbligazioni, giusto o sbagliato che sia, sono ora tenuti, giocoforza, ad assumersi le proprie responsabilità e, come avviene per ogni investimento, valutando attentamente se sia il caso di affidare i propri risparmi a questa o a quella banca. Fatto salvo, ovviamente, che il cliente abbia tutti i mezzi per comprendere appieno la portata del rischio associato all’investimento sottoscritto.

E’ bene rimarcare che acquistare azioni significa diventare proprietari di una parte, per quanto risibile, di una società (in questo caso una banca), divenendo detentori di capitale di rischio, mentre chi sottoscrive obbligazioni corre il pericolo che l’emittente (sempre la banca) possa diventare insolvente. È in ogni caso importante ricordare, rischiando forse di apparire cinici, che quando si fa un investimento si rischia, sempre. Quindi non ci si può rallegrare solo se il proprio patrimonio cresce, mentre se si devono affrontare delle perdite s’invoca subito l’aiuto del “cavaliere bianco” stato, sempre pronto ad aiutare i suo cittadini più sfortunati. Anche se non è facilissimo entrare in questa dimensione, l’introduzione delle nuove norme comunitarie ci obbliga a tenerne conto, eccome.

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