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Petrolio, un crollo con vaste conseguenze

19/12/2018

Martedì 18 dicembre il contratto future sul petrolio Wti statunitense con scadenza gennaio, attualmente il mese frontale nella curva a termine di tale strumento, ha chiuso ai minimi dell'anno poco sopra 46 dollari al barile. Si tratta di un valore che pone fermamente in territorio negativo anche questa asset class nel corso di questo travagliato 2018.

Inoltre lo spread con il Brent è aumentato notevolmente negli ultimi mesi, praticamente raddoppiando da agosto sopra quota 9 dollari. Queste dinamiche sembrano indicare, come al solito, problemi di sovrapproduzione statunitense, a causa della flessibilità e della rapidità con cui la produzione di shale viene riattivata quando i corsi sono elevati. Infatti, se analizziamo i dati di produzione Usa, si scopre che l'output locale ha messo a segno un record dopo l'altro nel corso del 2018, superando ampiamente quota 11 milioni di barili al giorno. Tanto per dare un'idea della ripresa del comparto petrolifero statunitense, a metà del 2016, all'apice del crash dell'oro nero in generale e del comparto dello scisto in particolare, le cifre erano inferiori per 3 milioni di barili.

Al di là della specifica situazione americana, l'intero comparto appare in condizioni piuttosto scricchiolanti, elemento testimoniato anche dal fatto che da settembre a oggi, fra gli 11 settori dell’S&P 500, l'energia è quella che ha messo a segno le performance peggiori.

E anche il Brent, la qualità di riferimento dell’Europa, è in territorio negativo dall'inizio dell'anno. La questione della sovraofferta è infatti inestricabilmente legata a una domanda che oggi rappresenta una forte incognita. Quest'ultima negli scorsi anni è cresciuta a un ritmo tutto sommato discreto, anche se non particolarmente sostenuto. Ad esempio l'International Energy Agency prevede per quest'anno un aumento dei consumi di 1,3-1,4 milioni di barili al giorno. Se si considera il fatto che ormai la domanda complessiva giornaliera appare appena al di sotto della soglia di 100 milioni di barili, alcune conclusioni si possono trarre.

La prima è che, con il livello tecnologico attuale, che comporta che una sempre maggiore efficienza energetica si accompagna a una sempre più elevata produzione, ci vuole un mix di vari elementi per riuscire a generare prezzi appena discreti, ossia intorno a 70-80 dollari al barile. Questi elementi comprendono una disciplina di ferro da parte dei maggiori produttori mondiali (non solo quelli che fanno parte dell'Opec) nell'aderire ai propri obiettivi di produzione e un'economia in fase di solida espansione. Tutti questi fattori vanno a formare un delicato equilibrio dalle fragili interconnessioni, pronto a saltare non appena qualcosa va storto. Come si è visto dall'ultimo vertice Opec, diventa particolarmente complicato superare inimicizie storiche e difficoltà finanziarie contingenti quando l'economia è in rallentamento e la torta si restringe già di suo.

Di fronte a un conclamato e pesante rallentamento economico, dunque, non ci sarebbe da sorprendersi se i prezzi, come già avvenuto nel 2008 e del 2016, tornassero sotto quota 30. Ovviamente simili corsi sarebbero insostenibili per tutta la filiera, almeno sul medio termine. Il risultato sarebbe inoltre di aggiungere un ulteriore elemento di instabilità sui mercati finanziari. Il petrolio, infatti, sembra chiaramente costituire un elemento neutrale per la propensione al rischio solamente quando non quota né troppo alto, né troppo basso, anche se appare complicato determinare bande precise a questo riguardo.

Con prezzi troppo modesti rischia di aggravarsi la crisi di diverse nazioni emergenti, che dal petrolio derivano gran parte del proprio export, con effetti negativi ben superiori ai risparmi generati dagli importatori netti. E ciò peraltro non farebbe altro che incupire ulteriormente l'outlook generale per il 2019.

In pratica, anche se a volte gli investitori se ne dimenticano, il greggio è una risorsa ampiamente ciclica e vederlo crollare non farebbe altro che confermare la presenza di qualcosa che per il momento esiste solo nella testa degli investitori, ossia una nuova recessione.

A cura di: Boris Secciani

Parole chiave:

petrolio wti brent recessione
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