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A caccia di una bussola per valutare i mercati

28/01/2017

E’ questo il momento in cui vale la pena optare per una gestione di tipo passivo e dimenticare qualsiasi altro tipo di valutazione? Se concentrassimo la nostra attenzione solo sui risultati realizzati negli ultimi mesi –ma anche anni- dai principali indici azionari statunitensi, la risposta sarebbe sicuramente positiva.

A questi livelli, puntare a una rivalutazione mensile del 5% dello S&P500 è considerato qualcosa di normale. Lo stesso si può affermare se guardiamo al +10% registrato nel 2016 e al +80% degli ultimi cinque anni. Nessuno si sorprende più e il quadro d’insieme viene considerato come qualcosa di logico. I prezzi delle azioni sembrano godere di un’indipendenza totale all’interno di un contesto caratterizzato dall’assenza di alternative.

La misurazione del rischio sembra passata in secondo piano sia per i titoli azionari di tipo growth sia per i classici di sempre come Coca Cola, Ibm o Exxon Mobil. Quest’ultima ha un ratio P/e di 41, quando storicamente è stato di 10. Coca Cola presenta un ratio P/e di 25 e General Electric di 36. L’indice Standard and Poor’s 500 ha un ratio P/e di 26 e il Dow Jones di quasi 22, in uno scenario globale dove tale ratio sembra aver perso peso e ogni correzione degli indicatori viene percepita come una nuova opportunità di acquisto in attesa di raggiungere nuovi massimi storici.

Sarà così anche la prossima volta che gli indici segneranno una correzione? Fino a quando le banche centrali continueranno a svolgere il compito di grandi burattinai (manipolando i prezzi) mediante la politica monetaria ultraespansiva, sarà probabilmente così. Tuttavia, vale la pena non perdere di vista cosa sta facendo la banca centrale più importante e influente del pianeta. I dati economici indicano che la Fed sta cercando di innescare –con molta gradualità- un processo di normalizzazione della politica monetaria.

Al rialzo del costo del denaro deciso lo scorso 14 dicembre, dovrebbero seguirne altri durante il 2017. Nel medio termine, un livello dei tassi ufficiali compreso tra il 2,5% e il 3% sarebbe necessario per raggiungere lo status di mercato monetario non soggetto al condizionamento diretto della banca centrale. Tale livello, a detta di molti esperti, rappresenterebbe anche una sorta di riequilibrio dei fondamentali alla realtà.

Per ora c’è un dettaglio che merita di essere preso in considerazione nel bilancio della Fed: Il rialzo del costo del denaro del dicembre 2015 è stato accompagnato da una caduta delle riserve che segnò l’avvio di un periodo di instabilità e volatilità in aumento. Lo stesso trend potrebbe verificarsi in occasione dei nuovi rialzi della Fed. La caduta delle riserve della Fed è stata significativa se si guarda al breve termine –meno se si prende in considerazione un periodo di tempo lungo- ma così intensa da scatenare nuovi timori sulla tenuta dei mercati.

L’impatto di una variabile di questo tipo sull’andamento dei corsi dimostra quanto sia vulnerabile il mercato in un periodo in cui l’indice pubblicato dalla CNN in base a parametri come la volatilità, gli spread dei junk bond, il ratio put/call e il momentum, confermano il sentiment positivo degli investitori sulle prospettive delle azioni.

I media Usa e non-Usa stanno ponendo molta enfasi sul raggiungimento della barriera dei 20.000 punti da parte del Dow Jones. Messaggi del tipo ‘Now is time to go all in in stocks’ si accompagnano a letture ottimistiche del sentiment degli investitori (ai livelli più alti degli ultimo due anni).

Il tutto avviene in un periodo in cui i mercati ignorano quasi del tutto i rischi politici che dominano il panorama internazionale. Non era mai successo in passato che gli spread non riflettessero questo tipo di rischio (non nel 2008 e neanche nel 2012)- Per il 2017 avremo a che fare con un’incertezza politica che si estende dalle politiche che saranno implementate da Trump fino ai risultati delle elezioni in Europa, senza dimenticare l’evoluzione della Brexit.

A cura di: Rocki Gialanella

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