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Consulenza finanziaria a rischio?

23/01/2018

PricewaterhouseCoopers, una delle principali società nel campo della consulenza alle aziende, ha recentemente elaborato una ricerca cui hanno partecipato circa 500 professionisti dei comparti più disparati dei servizi finanziari, dalle assicurazioni all’asset management e al consumer banking.

Dal report è emerso che la stragrande maggioranza di coloro che hanno risposto ritiene che da qui al 2020 i prodotti consumer offerti dalle banche vedranno gli equilibri cambiare profondamente rispetto alla situazione attuale: infatti circa l’80% delle attività in tale ambito rischia di venire dominato dai nuovi player tecnologici. La stessa ricerca sottolinea anche che il 28% dell’attività delle banche commerciali e dei sistemi di pagamento e il 22% di quelle connesse all’asset management e alla consulenza finanziaria sono considerati a rischio entro il 2020. Con la definizione «a rischio» si intende il pericolo di vedersi sottrarre le già citate percentuali di attività da nuovi player non tradizionali che puntano sull’hi-tech.

Come si può capire, non si tratta solo di business tutto sommato accessori a subire un processo di cambiamento epocale, come il segmento dei trasferimenti di denaro, bensì anche aree a maggiore valore aggiunto e decisamente più strategiche. In realtà, in quest’ultimo caso il problema non è il gadget o la App: gli istituti tradizionali sono liberi di sviluppare le loro applicazioni innovative e infatti lo fanno. La questione vera è che, esattamente come Uber, le aziende di fintech hanno un vantaggio e una fragilità fondamentale: pur essendo a tutti gli effetti società attive nel mondo dell’intermediazione finanziaria queste non possono vantare, tuttavia, uno stato patrimoniale neppure avvicinabile a quello delle banche (il parallelo di fatto si chiude qui: non ci sono e non ci saranno “Uber dei servizi finanziari”, come sottolinea Chris Skinner, il guru mediatico per eccellenza quando si parla di fintech).

Da questo punto di vista si potrebbe dire insomma che il fintech rappresenta l’evoluzione ultima dello shadow banking, ossia quel complesso di mercati, istituzioni e intermediari che erogano servizi bancari senza essere soggetti alla relativa regolamentazione. Le incognite ovviamente sono tante, soprattutto a livello legislativo e di garanzie, vista la natura dell’attività bancaria. Nell’era di internet, tuttavia, i processi di crescita si innescano velocemente e su basi molto diverse da quelle che abbiamo conosciuto finora. In un mondo della finanza che prima dell’ultimo biennio non si è certo distinto per la capacità di innovare, lo sbarco delle fintech rischia di fare saltare il banco.

Il problema è che tale processo, come abbiamo visto, appare piuttosto instabile e difficile da regolamentare in maniera adeguata. Non sarebbe quindi sorprendente se nei prossimi anni gli organismi di controllo si trovassero di fronte a una scelta epocale: o lasciare correre un processo divenuto probabilmente inarrestabile, una sorta di doppio-circuito finanziario, con l’online a fare verosimilmente da subprime del sistema, sia a livello bancario, sia di altri servizi finanziari, o cercare di difendere in tutte le maniere i sistemi finanziari più tradizionali con una valanga di nuovi regolamenti. Inutile dire che le conseguenze economiche, qualsiasi sia la scelta, saranno enormi. Un conto, infatti, è riconoscere una situazione de facto, se non de iure, per società come Airbnb e Uber, un altro è trovarsi ad affrontare una crisi finanziaria nata nel mare magnum della rete.

A cura di: Massimiliano D'Amico

Parole chiave:

fintech asset management consulenza finanziaria
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