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Come nascerà la crisi che prima o poi verrà

12/01/2018

Negli ultimi due articoli avevamo analizzato lo scostamento delle performance del mercato azionario fra Usa, Giappone, Europa ed emergenti, rispetto alla rispettiva progressione dei profitti. La domanda che restava senza risposta era se avesse senso una simile sottovalutazione relativa di Europa e Giappone accompagnata da una continua espansione dei multipli statunitensi, le cui aziende hanno mostrato sì un buona progressione degli utili, ma comunque molto minore rispetto alle altre aree.

Era stato anche osservato che alla base c’erano le differenti composizioni dei listini analizzati, con naturalmente gli Stati Uniti caratterizzati da una maggiore presenza di titoli growth. Ma quanto può andare avanti questa biforcazione fra mercati? Un serio cambiamento potrebbe avvenire essenzialmente con due scenari fra loro opposti.

Il primo, per ovvie ragioni positivo, si presenterebbe nel caso in cui la ripresa in Giappone e in Europa continuasse imperterrita, anche a fronte di un eventuale ciclo americano appesantito, con le due aree che si mostrassero più dinamiche e fosse colta dagli investitori l’evidente discrepanza a livello di valutazioni.

Dall'altra parte, e sono in molti a ritenerlo lo scenario più probabile, un'inversione storica di trend relativi si avrebbe solo dopo che l'attuale bolla fosse finalmente finita, probabilmente, come tutte le bolle, in malo modo. Storicamente infatti questa è stata la sola maniera di riportare alla normalità mercati estremamente sopravvalutati.

Chiariamo subito un elemento: un simile fenomeno non è dietro l'angolo, anche se segnali preoccupanti ci sono. È infatti interessante analizzare alcune caratteristiche del mercato statunitense. Per fare ciò partiamo da un indice non eccessivamente conosciuto al grande pubblico, ossia il Russell 3000, che comprende le 3 mila maggiori società statunitensi pesate per capitalizzazione.

Un indice, quindi, che rispetto al più classico S&P 500 inserisce anche molte small cap. All'interno di questo benchmark vediamo che attualmente quasi l'8% delle aziende non riesce a generare cash flow sufficiente per coprire il servizio del debito. Si tratta in assoluto del livello più alto dai primi anni novanta. Contemporaneamente circa la metà degli utili complessivi è generata da sole 30 mega-gruppi, un valore che si è notevolmente ridotto dal 1995, quando il totale era pari a 89.

Che cosa vuol dire ciò? Che anche a livello borsistico cominciano a vedersi segnali evidenti di una sempre maggiore concentrazione in pochi grandi poli delle capacità competitive della prima economia del mondo. Questo di per sé non è un segnale di crisi imminente o niente di simile, però rende un po’ rischioso il tutto, in quanto la crescita dipende da veramente pochi temi. Il che vuole dire che questi sono destinati a essere spinti sempre più al rialzo, fatto che a sua volta porterà a cadute disastrose non appena qualcosa andrà inevitabilmente storto.

Questo indubbiamente è un problema da correggere, un problema che avrebbe potuto ricevere almeno una parziale soluzione se dall'amministrazione fossero arrivate riforme per espandere la base di crescita. Attualmente invece non resta che l'It e poco altro a tenere insieme la baracca. Sarà dunque una crisi endogena a cambiare la percezione dell'equity statunitense, una crisi che non è all'orizzonte ma che ha messo tutte le basi necessarie, specificatamente il contemporaneo deteriorarsi dei margini delle small cap e l'allargarsi di quelli della mega-cap.

A cura di: Boris Secciani

Parole chiave:

crisi dei mercati usa wall street europa giappone
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