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Occupazione senza inflazione

14/02/2018

Il tasso di disoccupazione statunitense è ai massimi storici e l’inflazione continua a restare sotto il target inflation. C’è da domandarsi che fine ha fatto la Curva di Phillips?

La curva di Phillips è stata utilizzata dagli economisti per mostrare la relazione tra disoccupazione e inflazione negli ultimi cinquant’anni. La caduta del tasso di disoccupazione determina, solitamente, un incremento dei prezzi al consumo a causa delle pressioni salariali e dell’aumento della domanda aggregata. Tuttavia, questa relazione sembra essere svanita negli ultimi anni, anche nei casi in cui la disoccupazione si posiziona su livelli inferiori alla media storica in alcuni paesi.

Cinquanta’anni fa, Milton Friedman mise in dubbio alcuni dei principi base della teoria della curva di Phillips. L’economista statunitense sostenne che un’economia avrebbe potuto sperimentare fasi di disoccupazione elevata e inflazione crescente. In un discorso tenuto nel 1967, Friedman avvertì che non era fondata la possibilità, per le banche centrali, di controllare i prezzi e la crescita economica accettando maggiori livelli d’inflazione in cambio di una riduzione permanente dell’occupazione.

Le critiche di Friedman e altri economisti, unite alla stagflazione sofferta dall’economia Usa negli anni ’70, hanno dato una spinta decisiva alle modifiche apportate alla ‘Curva’, che incorporò il concetto di tasso naturale di disoccupazione: se la disoccupazione cade al di sotto di tale livello, l’inflazione ha buone probabilità di continuare a salire. L’introduzione del concetto potrebbe aver migliorato il funzionamento di questo indicatore, tuttavia, la stagflazione ha dimostrato che in periodi in cui l’inflazione e alimentata dal prezzo delle materie prime, la relazione tra disoccupazione e inflazione è debole.

Anche se attualmente una parte non disprezzabile degli esperti crede che la curva di Phillips non rappresenti più un indicatore affidabile, il modello viene ancora preso in considerazione dalle banche centrali nelle loro analisi (forse perché sanno molto bene che una buona parte del mancato funzionamento della ‘Curva’ è imputabile anche alle politiche monetarie utilizzate negli ultimi anni?). Se è vero che Friedman ha avuto ragione sulla validità temporanea del meccanismo indicato dalla ‘curva’, è altrettanto vero che lo stesso Friedman ha sempre sostenuto che l’inflazione è un fenomeno puramente monetario (ma il quantitative easing sperimentato dalle principali banche centrali non sembra, almeno per ora, dargli ragione).

La teoria messa a punto da Phillips ha subito negli anni ulteriori modifiche e attualmente ingloba una rilevanza per le aspettative d’inflazione, in scia alla convinzione che se i consumatori e le imprese credono che i prezzi siano destinati ad aumentare, è molto probabile che seguiranno comportamenti tali da innescare tale processo.

Il problema è che neanche la versione rivisitata della teoria sembra funzionare. Con un tasso di disoccupazione fermo al 4,1% -un livello nettamente inferiore alla media storica Usa che è al 4,6%- l’inflazione sottostante non ha dato segnali di risalita e si mantiene al di sotto del target inflation fissato dalla Federal Reserve al 2%. L’ultima rilevazione della variazione dei prezzi al consumo segna infatti un +1,8% su base annua.

Questa è la ragione principale che spiega la mancanza di unanimità a supporto dei recenti aumenti dei tassi Usa e spinge alcuni esponenti del board della Fed a mettere in discussione la validità delle indicazioni offerte dalla Curva di Phllips e a non essere d’accordo con il processo di normalizzazione della politica monetaria avviato dalla presidente uscente Janet Yellen.

Lo scetticismo sulla validità della ‘Curva’ ai nostri giorni è significativo perché la Federal Reserve e altre grandi banche centrali danno per certo che l’accelerazione dell’occupazione provocherà –prima o poi- incrementi salariali tali da alimentare l’inflazione. Tuttavia, fino a questo momento, gli ultimi anni hanno registrato accelerazioni temporanee dell’inflazione solo quando le quotazioni dell’energia hanno segnato sensibili incrementi. Al contrario, l’inflazione sottostante –quella che non tiene conto delle variazioni dei prezzi dell’energia e dei beni alimentari- non ha mostrato segnali di risveglio.

A cura di: Rocki Gialanella

Parole chiave:

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