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Prove di Trumpeconomics

16/11/2016

La settimana dopo l'elezione di Donald Trump alla presidenza degli Usa, ha portato un fenomeno che non si vedeva da anni, almeno in forma così accentuata: infatti, nonostante periodi di panico improvviso in cui la volatilità implicita tende a salire rapidamente, sia quella realizzata, sia l'implicita stessa appaiono in un trend ribassista di lungo termine. Ovviamente la politica dei tassi di interesse sempre più bassi ha giocato un ruolo fondamentale nel reprimere i movimenti di mercato verso il rialzo, innalzando al contempo la correlazione.

Oggi tutto ciò sembra finito: nel giro di pochi giorni, infatti, è stato bruciato circa un trilione di dollari sul mercato obbligazionario globale, mentre l'azionario non ha fatto altro che salire. Uno sviluppo repentino, che è andato a inserirsi in un momento già di fragilità del reddito fisso, che è stato razionalizzato con il programma di Trump.

Quest'ultimo, peraltro inserito in un trend globale, come successe nel primo mandato di Obama, punta a un forte stimolo infrastrutturale, accompagnato però da una semplificazione legislativa e da un forte taglio alle tasse. Un misto di ricette tradizionali repubblicane e manovre keynesiane, che in teoria dovrebbe portare a una maggiore crescita nominale. Quest'ultima potrebbe arrivare sotto forma di un incremento reale del Pil o con una più forte inflazione.

Ciò a sua volta dovrebbe portare due effetti: un allargamento del fatturato e degli utili aziendali e, in mancanza di quantitative easing, un bear market le cui dimensioni sono ancora da definire su tutto il complesso dell'obbligazionario globale. Si può facilmente intuire che siamo di fronte a una rivoluzione rispetto all'era post-crisi finanziaria: infatti a partire dagli anni '80 gran parte della crescita degli asset finanziari può essere spiegata con il calo storico dei tassi di interesse reali e nominali.

Inoltre, grazie al fine tuning monetario, in questi anni '10 spesso la discesa dei corsi del reddito fisso e un irripidimento delle curve governative hanno offerto magnifiche occasioni agli investitori istituzionali per rafforzare la propria esposizione alla duration e spesso al rischio creditizio.

Oggi rischiamo invece di essere a una svolta storica, destinata anch'essa a portare un duplice scenario. Se verrà riattivata una crescita vera, con aumento di occupazione, salari, utili, fatturati e margini a livello globale, allora il sistema potrà essere in grado di reggere tassi reali più elevati e quindi di conseguenza la volatilità resterà contenuta a lungo.

Se invece si arrivasse a una sorta di stagflazione, allora tutto cambierebbe. Innanzitutto con la parte a lunga scadenza del mercato dei bond in forte calo, le banche centrali non potrebbero permettersi di rialzare ulteriormente i tassi a breve. Pertanto, se scoppiassero di nuovo i problemi, bisognerebbe tornare al quantative easing. Nel frattempo, però, non è impensabile uno scenario in cui un disordinato rialzo dei rendimenti del fixed income arrivasse, con magari uno-due anni di ritardo, a scardinare pesantemente l'economia.

Infatti in uno scenario come quello attuale, dove già diversi istituzionali ritengono appetibili il decennale Usa al 2,5% e il trentennale intorno a 3,2% (attualmente siamo rispettivamente al 2,27% e 3%), i corporate potrebbero non muoversi più di tanto e vedere gli spread restringersi. Allo stesso tempo altri elementi del sistema, quali i mutui statunitensi prezzati sulla parte a lunga della curva governativa, non dovrebbero subire danni. Se il processo però diventasse disordinato e continuasse oltre le soglie indicate, nel giro di pochi mesi vedremmo notevoli danni.

Basti pensare al fatto che a partire dal 2018 molte aziende statunitensi con debito high yield dovranno cominciare a rifinanziarsi, avendo già ora una leva elevata. Il rischio è che l'attuale decorrelazione finisca all'improvviso con un ritorno di forti movimenti nella stessa direzione: al ribasso. In un tale ambiente appare scontato dire che potrebbero cambiare moltissimo le aspettative di volatilità azionaria.

In definitiva c'è da sperare che si stia entrando in una stagione di ripresa vera: se invece il tutto dovesse ridursi a un passaggio violento dalla deflazione alla stagflazione gli scossoni sarebbero brutali.

A cura di: Boris Secciani

Parole chiave:

trump obbligazionario azionario pil
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