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Occupazione Usa ai massimi

10/07/2017

Venerdì 7 sono state pubblicate le rilevazioni mensili sulla creazione di posti di lavoro negli Stati Uniti. Il dato è risultato eccellente: a giugno è stata osservata una creazione netta di nuova occupazione pari a 222 mila unità.

Non solo, sono stati rivisti al rialzo anche i numeri dei due mesi precedenti: la ripresa primaverile-estiva ha permesso di alzare anche i dati medi degli ultimi mesi. La media dell’ultimo trimestre ha visto nuovo lavoro per un totale di 194 mila posti ogni 30 giorni. Se ci spostiamo su un orizzonte a sei mesi, il dato va a 187 mila, mentre su 12 si scende a 180 mila.

Si tratta di valori che sono in linea con la media annuale del 2016 (187 mila) e significano che, se finora non c'è stato il boom promesso da Trump, neppure si scorge all'orizzonte la catastrofe preannunciata dai suoi oppositori. In pratica l'economia americana sembra muoversi al solito passo degli ultimi anni, con un incremento del Pil che nel 2017 dovrebbe risultare di qualcosa superiore al 2%.

È interessante però analizzare i dati sulla disoccupazione: a giugno risultava, arrotondando al secondo decimale, al 4,36% dei partecipanti alla forza lavoro. Dal 1970 a oggi solo nel 4% dei casi questo indicatore ha mostrato valori inferiori alla soglia del 4,3%. Nello specifico l'ultima volta che si è avuto un tasso inferiore è stata nel periodo 1999/2001. Si tratta di una scoperta piuttosto interessante: all'epoca l'America stava vivendo gli ultimi giorni della prima enorme bolla di internet e il paese si trovava forse nella migliore condizione economica assoluta e relativa di sempre, rispetto ad altri paesi. Il Pil nominale e reale crescevano a ritmi doppi rispetto a quello attuale e la Fed era impegnata in una poderosa manovra di rialzo dei tassi di interesse per frenare quella che l'allora presidente della Fed Alan Greenspan aveva definito come «esuberanza irrazionale».

Quasi due decenni dopo, a parte una bolla dell'It (comunque molto diversa da quella dell'epoca), quasi nulla sembra che sia paragonabile: nel giugno di quest'anno l'incremento dei salari (nominale) è stato del 2,5%, una cifra discreta, ma non certo compatibile con uno scenario di boom occupazionale. È vero che il tasso di disoccupazione appare molto basso per via di una limitata partecipazione della popolazione civile (quella dai 15 anni in su) alla forza lavoro e attualmente il livello è intorno al 62%. È altresì indubbio, però, che l'esplosione di alcune forme di assistenza sociale in Usa, l'invecchiamento della popolazione e altri fattori dovrebbero favorire le rivendicazioni salariali, in quanto costituiscono un tappo all'offerta di lavoro.

Così invece non sembra che sia per ragioni non del tutto identificabili: si va da teoremi ai limiti del complottismo, come sostenere la sostanziale falsità dei dati sulla creazione dei posti di lavoro, manipolati dall'uso del cosiddetto birth/death model, a teorie più o meno sensate sulle ragioni strutturali del declino della produttività.

Probabilmente la realtà è determinata da un mix di tutti questi elementi, incluso un uso un poco allegro del birth/death. Resta il fatto che il fenomeno sembra sempre più diffuso, non solo in America: vi è innanzitutto il Giappone, dove, nonostante una situazione di piena occupazione e di espansione della forza lavoro, gli stipendi non crescono. Oppure come l'Italia circa un decennio fa, che raggiunse il proprio record occupazionale, con oltre 23 milioni di posti, in anni di decisa stagnazione, accompagnata dal peggiore tasso di crescita economica al mondo e da tre mini-recessioni fra il 2001 e il 2007.

Sia quello che sia, probabilmente la situazione non è facilmente modificabile: peraltro ciò non significa che questo fenomeno sia necessariamente una cattiva cosa. È possibile infatti individuare qualche tema di investimento per un mondo a bassa crescita di reddito.

A cura di: Boris Secciani

Parole chiave:

occupazione disoccupazione usa forza lavoro
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