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Euro e dollaro, una fragile tregua

03/10/2018

Pochi terreni sono più scivolosi del mercato dei cambi. In generale vi è una corrispondenza di lungo periodo tra i fondamentali economici di un paese e il suo tasso di cambio, ma questa relazione può invertirsi a lungo. Lo yen giapponese, ad esempio, ha mostrato una notevole forza nei primissimi anni di questo decennio, mentre il Giappone dell'era pre-Abenomics si trovava in una situazione di malessere economico senza precedenti. Viceversa il dollaro non appare oggi così incredibilmente forte, nonostante l'apparente distacco che gli Usa stanno rifilando al resto del mondo.

Se infatti analizziamo l'andamento del Pil, delle politiche monetarie e i chiari di luna che accompagnano la situazione italiana, sarebbe ragionevole attendersi un biglietto verde ai massimi rispetto all'euro dai tempi dell'avvio della moneta unica. Invece la valuta di riserva del pianeta si trova in leggero rialzo dall'inizio dell'anno, ma nulla di più, con l’euro ben al di sopra dei livelli minimi registrati nel 2015 e nel 2016.

Ex post si possono trovare molte spiegazioni sensate a qualunque fenomeno: nel caso specifico del cross Eur-Usd molti osservatori ritengono che l'attuale divergenza nell'andamento economico di Europa e Usa sia destinata a chiudersi in maniera notevole in un futuro ragionevolmente prossimo (diciamo già a partire dal 2019). Questa convergenza dovrebbe essere accompagnata dalla continuazione di una ripresa europea che molti ritengono ancora solida e non particolarmente messa a rischio dalle difficoltà italiane.

La spiegazione ha una sua logica, soprattutto se si sposa la tesi secondo cui l'attuale boom americano è drogato da elementi quali l'aumento del disavanzo nei conti pubblici che rischiano di non essere più  sostenibili nell’attuale quadro di tassi e rendimenti obbligazionari in aumento.

Se andiamo però a compiere un minimo di analisi dei dati nell'andamento del cross Eur-Usd cogliamo un altro aspetto che potrebbe essere interessante, soprattutto se ci soffermiamo su un database che comprende le oscillazioni percentuali giornaliere del cambio fra la fine del settembre 2013 e quella del 2018, e si mette a confronto con il suo sottoinsieme che copre invece solo i nove mesi appena terminati da inizio 2018.

In questo periodo si è visto un po' l'intero microcosmo dell'imprevedibilità tipica del segmento più liquido del mercato delle valute: un forte bull market fra 2013 e 2014 della moneta unica cui ha fatto seguito un'impennata del dollaro, seguita poi da una ripresa di breve periodo da parte dell'euro e adesso da una nuova, ma, come abbiamo visto, sonnacchiosa, fase favorevole alla valuta statunitense. Ciò che è interessante notare è che anche sul Forex la volatilità è andata scemando notevolmente in questi anni: di conseguenza l'attuale incapacità da parte di questo cross di uscire fuori da una banda stretta non avrebbe tanto a che fare con l'annullamento vicendevole di diverse tensioni macroeconomiche  e monetarie contrapposte, quanto con un generale rallentamento dell'evoluzione dei mercati.

Negli scorsi anni il Forex aveva visto scaricarsi tutta la compressione operata dalle banche centrali che hanno sistematicamente ridotto ogni forma di premio al rischio sui mercati, ma a partire dal 2016 e in maniera evidente nell'ultimo biennio anche all'interno di questa asset class si è verificata una forte diminuzione della volatilità. Per varie ragioni questa situazione non sembra destinata a durare a lungo nel tempo: in un prossimo articolo tenteremo di capire quali potrebbero essere le conseguenze di un ritorno della volatilità in questo ambito.

A cura di: Boris Secciani

Parole chiave:

dollaro euro forex
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