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Il ritorno delle tigri asiatiche

31/03/2017

Siamo arrivati alla fine del primo trimestre del 2017 ed è tempo di fare qualche piccolo bilancio. A mostrare in assoluto le migliori performance, sia in valuta locale, sia in dollari, è stato il mercato azionario indiano, su cui torneremo prossimamente. Oggi ci occupiamo di quella che è stata comunque una delle migliori aree, quanto a rendimenti equity in questo primo quarto di anno, ossia il Far east.

In particolar modo vale la pena concentrarsi sui mercati delle economie più sviluppate dell'area, Giappone, Singapore, Hong Kong, Corea del Sud e Taiwan, messi in ordine decrescente di Pil pro capite nominale nel 2016. Si tratta dunque di un insieme di paesi ad alto reddito, anche se nel caso di Taiwan e della Corea i mercati azionari sono ancora classificati, almeno da Msci, nel gruppo degli emergenti.

Ma vediamo innanzitutto alcune performance: Singapore ha visto il proprio indice, lo Straits Times, crescere del 10,%; se aggiungiamo poi che il dollaro statunitense ha lasciato sul terreno circa il 3,4% rispetto alla divisa locale, si evidenzia che le performance sono state sontuose. La stessa combinazione di ripresa dei corsi azionari e rafforzamento valutario si è verificata anche in Corea del Sud, dove il Kospi ha messo insieme +6,6% con il dollaro che ha perso quasi il 7,3% rispetto al won, e a Taiwan, dove il principale benchmark azionario ha mostrato un rendimento del 6,1% con il biglietto verde che ha perso il 6,1% nei confronti del dollaro taiwanese.

L'Hang Seng di Hong Kong è pure venuto su del 9,6%, però va ricordato che la moneta locale è legata a un regime di cambi fissi con quella americana. L'unica eccezione importante è stata costituita dal Giappone, che ha visto un calo del mercato azionario di circa l'1%, a fronte di una discesa del dollaro nei confronti dello yen del 4,3%.

Da questi dati possiamo già ricavare una serie di considerazioni interessanti. Innanzitutto la borsa di Tokyo fa fatica a liberarsi di una correlazione inversa quasi perfetta nei confronti della propria valuta, segno che la crescita endogena giapponese è ancora molto modesta. I principali driver del Sol levante rimangono il quantitative easing, lo spostamento verso una maggiore allocazione azionaria da parte degli investitori istituzionali domestici e la traslazione in yen dei profitti esteri.

Contemporaneamente, invece, i mercati delle quattro tigri originarie dell'Asia sembrano tornati al periodo d'oro 2003-2007, in cui l'afflusso di capitali esteri e un maggiore interesse da parte di quelli domestici per gli asset locali avevano spinto sia moneta, sia indici azionari, nella stessa direzione.

Nell'ultimo anno non è sempre stato così: il won coreano ha visto finire il proprio bull market storico con l'avvento della crisi finanziaria: da lì in poi si è avuta una serie di bear market, riprese e ampio trading range. Il mercato azionario è stato uno dei più brillanti nella fase di ripresa dalla crisi (2009-2011), per poi andare oscillare mediocremente in un ampio trading range fino alla ripresa degli ultimi mesi. Il dollaro taiwanese è risultato molto meno volatile, muovendosi sostanzialmente nell'ultima decade fra 30 e 35 contro dollaro Usa, a fronte di un mercato anch'esso stagnante fino all'ultimo biennio.

Singapore è stata una delle piazze più brillanti, sotto ogni punto di vista, una sorta di Svizzera dell'Asia fino alla crisi del 2015 in cui sia divisa sia mercato azionario hanno ceduto per poi riprendersi.

A questo punto si può stabilire che la correlazione tra i vari asset rischiosi nel Far East industrializzato è piuttosto forte sul medio-lungo periodo, più che altrove, ma per una serie di ragioni, alcune anche indipendenti fra loro, appare comunque evidente la continuazione di un processo di rotazione fra Giappone e suoi diretti concorrenti nell'area.

Infine un quesito: ha senso per questi paesi essere usciti dalla stagnazione finanziaria con performance da 2006, proprio in un momento delicato come questo, fra minacce di protezionismo americano e rallentamento strutturale cinese (ossia i due maggiori clienti di queste nazioni), il tutto contornato da un quadro politico che oscilla fra populismo e immobilismo?

Probabilmente la risposta è comunque sì, ma la chiave per rispondere va cercata nel capire quali possono essere i driver dell'Asia nei prossimi anni.

A cura di: Boris Secciani

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