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Un mondo post-emergente

25/07/2018

Abbiamo già visto che l'entrata delle azioni cinesi A nell'indice Msci Emerging Markets, pur rappresentando una grande opportunità, non è scevra da rischi e si era visto che l'etichetta emergente in sé non ha più molto senso e lo stesso benchmark di Msci è sempre meno utile. Ma quale alternativa si potrebbe sviluppare per raggruppare in maniera sensata diversi listini al di fuori dei paesi tradizionalmente industrializzati.

Va innanzitutto sottolineato che muoversi con una logica puramente geografica non sembra una grandissima idea, ma anche infilare nello stesso gruppo la Turchia, l'Egitto, la Malaysia e il Vietnam, visto lo scarto di sviluppo esistente, costituisce per un investitore un aiuto pratico minimo. Un criterio potrebbe essere quello di associare fra loro nazioni che presentano Pil pro capite e condizioni demografiche relativamente similari. Ma a muoversi con questa logica, che esula da alcuni criteri squisitamente finanziari che separano gli emergenti dagli sviluppati, Taiwan e Corea del sud potrebbero essere collocati in una sorta di gruppo definibile come high income Far East, insieme a Hong Kong, Singapore, Giappone, Australia e Nuova Zelanda.  Alla stessa maniera Repubblica Ceca e Polonia potrebbero essere promossi fra gli sviluppati del Vecchio Continente, vantando ormai livelli economici non molto diversi dal Sud Europa.

Si potrebbe poi costituire un gruppo, che potremmo definire di grandi economie in transizione: si tratta di nazioni di relativamente nuova industrializzazione, con popolazioni dalle significative dimensioni e caratteristiche di Pil pro capite, consumi e salari non diversissimi fra loro. Idealmente avrebbe senso inserire in questo gruppo Brasile, Messico, Russia, Thailandia e Turchia. Si tratta di realtà con un Pil pro capite intorno ai 10 mila dollari a livello nominale (a parte la Thailandia che è un po' più povera) e simili condizioni in termini di stipendi medi, natalità e altri criteri.

Un colosso industriale come il Regno Thai in verità potrebbe essere banalmente inserito nel gruppo dei paesi del Sud-est asiatico, che però mostra tutti i limiti tipici dell'allocazione su base geografica: in questo sotto-insieme, infatti, troviamo esportatori netti fortemente manifatturieri, sul modello del Nord del Far East, come per l'appunto la Thailandia, una realtà quasi-sviluppata dal buon tenore di vita come la Malaysia, che è buon esportatore sia di beni industriali sia di risorse naturali, grandi e giovani mercati ancora nella fase iniziale del loro sviluppo, come Filippine e Indonesia, e, infine, economie in transizione dal socialismo reale come il Vietnam, per certi versi simile alla Cina degli anni ‘90.

Un altro raggruppamento che potrebbe essere sensato, quanto meno vista la correlazione che i rispettivi listini mostrano, è quello che potremmo chiamare emerging commodity exporter, ossia quelle economie emergenti la cui principale fonte di valuta estera è la vendita di risorse naturali. In questo gruppo rientrerebbero le nazioni del Golfo, l'Indonesia, la Malaysia, il Brasile, il Cile, il Messico, la Russia e il Sud Africa.

E poi la Cina e l’India, per ora nemmeno citate. Queste due nazioni sono troppo gigantesche a livello demografico ed economico, almeno nel caso del Dragone, per essere inserite in una categoria macro più ampia. La Repubblica Popolare poi si pone nell'ottica di diventare la nuova super-potenza del mondo, con investimenti enormi nella ricerca tecnologica più avanzata, altra caratteristica che differenzia tale realtà dal tipico mercato emergente. I listini di questi due colossi meritano di costituire un’asset class a se stante, in maniera simile a quanto già avviene per gli Usa e il Giappone.

Le idee proposte sono solo alcuni suggerimenti per superare quella che è ormai un'etichetta obsoleta che, se seguita alla lettera, rischia di procurare più di un danno agli investitori.

A cura di: Boris Secciani

Parole chiave:

emergenti Msci Emerging Markets Cina India benchmark
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