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Nascondersi è difficile

28/02/2018

Avevamo visto che per limitare i rischi di un mercato probabilmente in futuro molto più volatile del recente passato è necessario comprare volatilità ogni volta che essa rientra (come adesso) almeno al livello della propria media storica. Avevamo anche notato che l'equity statunitense non è poi così sopravvalutato rispetto al resto del mondo, se usiamo la prospettiva dei risultati aziendali dell'ultimo anno: il differenziale di P/E infatti si evidenzia soprattutto nei confronti delle previsioni per il 2018 (P/E forward).

Ma vale la pena continuare a puntare sugli scenari delineati nei mesi scorsi, nonostante un mondo che è improvvisamente parecchio cambiato? Un fenomeno che si è osservato durante la sciacquata di un mese fa è l'elevatissima correlazione tra le diverse asset class: i Treasury sono andati giù, così come in misura simile l'azionario di tutto il mondo e pure all'interno delle singole borse il calo è stato complessivamente uniforme e generalizzato. A tenere un po' meglio sono stati gli asset del sud Europa, che partivano da un livello di sottovalutazione tuttora elevatissima, e i corporate bond investment grade, che stanno raccogliendo denaro da istituzionali in fuga, sia dai governativi, sia dall'azionario.

Se analizziamo la struttura delle correlazioni all'interno dei listini equity, vediamo che i maggiori colossi dell'It mondiale, sia statunitensi, sia asiatici ed europei, hanno subito perdite in linea con il mercato o peggiori, confermando così ancora una volta l'elevato beta della tecnologia: gli investitori sono infatti disposti a pagare un premio sul lungo termine per l'evidente sempre maggiore  importanza del ruolo di queste aziende nell'alvo mondiale, ciò però non influenza minimamente il loro andamento nelle crisi di breve.

Scarsi risultati comunque hanno dato anche i titoli a supposto basso beta e più difensivi (per non parlare ovviamente invece di quelli più ciclici): tradotto dal linguaggio tecnico è più o meno venuto giù tutto contemporaneamente e con la stessa intensità, sia i titoli a forte crescita, sia quelli considerati più difensivi. Il 4 febbraio, alla fine di questo rapidissimo movimento, era in calo di almeno il 10% dai massimi di gennaio circa l'88% dell'azionario statunitense.

Che cosa ha cambiato tutto ciò per le prospettive future? Essenzialmente la risposta è una sola: l’arrivo della paura. All'improvviso, infatti, la retorica dell'età dell'oro del Goldilocks della grande moderazione, con il suo corollario di mercati che crescono in maniera costante, si è rivelata fallace. Le correzioni possono arrivare e pure molto rapidamente. Così come all'improvviso si è evidenziata un'incertezza sull'esito delle manovre delle banche centrali, che potrebbero commettere diversi errori nel loro cammino.

Di fronte a questo scenario i luoghi dove andare a nascondersi sono pochissimi: se si dovesse verificare una nuova fase di cali, questa volta più seria a livello complessivo e magari accompagnata da un minimo di deterioramento macro, anche i pochi investimenti che meglio hanno tenuto in queste settimane probabilmente cederebbero.

Come abbiamo visto, poi tutto ciò si accompagna a un maggiore livello di rischio assunto da investitori di ogni genere a caccia di rendimento negli ultimi anni e a un prosciugamento della liquidità su molti mercati secondari (da quello delle opzioni su azioni a quello dei corporate bond).

In pratica le fragilità sono tante: in passato avevamo parlato del 2019 come di un anno che sarebbe stato problematico, in quanto si sarebbe fatto finalmente sentire l'accumulo di cambiamenti da parte delle banche centrali di tutto il mondo (con in più l'incognita della successione di Draghi alla Bce): come si è visto, il problema è scoppiato molto prima. Di conseguenza sarebbe saggio per gli investitori operare qualche cambiamento strategico nelle proprie decisioni di investimento. Vedremo quali.

A cura di: Boris Secciani

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